Licenziamento donna in gravidanza: come impugnarlo e ottenere un risarcimento

24 Febbraio 2023

Il licenziamento di una donna in gravidanza è vietato dalla legge, la quale ha come obiettivo quello di tutelare le lavoratrici madri da un punto di vista lavorativo e da un punto di vista economico.

La legge, in questo modo, cerca di evitare che un evento meraviglioso come la nascita di un bambino possa in qualche modo diventare un problema per la vita lavorativa della donna (e madre). Tra queste varie tutele, quindi, c'è anche il divieto di licenziamento in gravidanza e anche nel periodo successivo, almeno fino al compimento del primo anno da parte del bambino.

Essendo, dunque, il licenziamento in gravidanza un licenziamento illegittimo, la donna lavoratrice che subisce questo tipo di trattamento è tenuta a far valere i propri diritti, che spesso si traducono nella richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro e nel risarcimento del danno, mediante il supporto di un avvocato esperto.

Più nello specifico, la donna ha il diritto di essere reintegrata nel proprio posto di lavoro in maniera immediata ed è tenuta a ricevere anche le retribuzioni perse durante il periodo di astensione dal lavoro (compresi anche i contributi previdenziali). Il licenziamento di una donna in gravidanza, però, non è sempre illegittimo e in alcuni casi è, dunque, possibile: scopriamo quali sono questi casi nel paragrafo successivo.

Le eccezioni: quando un licenziamento donna in gravidanza è possibile

Come abbiamo già detto in precedenza, il licenziamento della donna in gravidanza è vietato per legge, secondo l'articolo 54 del Decreto Legislativo 151/2001, poi modificato dal Decreto Legislativo 115/2003. Anche in questo caso di licenziamento, però, ci possono essere delle eccezioni e il licenziamento di una donna in gravidanza diventa legittimo nei seguenti casi.

  • Il licenziamento per giusta causa e, cioè, per una grave colpa della lavoratrice: in questo caso, che coincide con comportamenti non leciti e particolarmente gravi, non è concesso alcun periodo di preavviso e semplicemente il rapporto di fiducia tra azienda e donna lavoratrice viene a cadere.
  • L'esito negativo di un periodo di prova: il periodo di prova è regolato dall'articolo 2096 c.c., il quale prevede che entrambe le parti possano recedere liberamente e senza preavviso, anche nel caso in cui la donna lavoratrice sia incinta.
  • La risoluzione di un contratto a termine: in questo caso, il lavoro giunge alla sua naturale scadenza e il rapporto di lavoro cessa, anche se nel periodo di divieto di licenziamento.
  • La cessazione dell'attività dell'azienda: anche in questo caso, poco importa se questa cessazione coincide con il periodo di divieto di licenziamento.

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Il caso di Como e della lavoratrice licenziata durante il periodo di maternità

Per comprendere meglio l'argomento, portiamo in esame il caso accaduto qualche anno fa a Como di una lavoratrice licenziata durante il periodo di maternità.

Più nello specifico, una ditta di Como ha presentato ricorso presso la Corte di Cassazione contro una sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano, la quale si era espressa a favore del risarcimento nei confronti della donna lavoratrice che era stata licenziata durante il periodo di maternità; oltre al risarcimento danni per la tutela del lavoratore, la Corte d'Appello di Milano si era anche espressa a favore della riassunzione della lavoratrice licenziata.

I legali della ditta, a favore della loro tesi, hanno sostenuto come il comportamento scorretto della lavoratrice, la quale sarebbe mancata dal lavoro senza dare alcun preavviso , abbia causato parecchio disagio nel normale svolgimento dell'attività lavorativa.

Questo, però, non è stato sufficiente a rendere questo licenziamento legittimo: la Cassazione, infatti, ha respinto questo ricorso, basandosi sulla Legge 151 del 2001, secondo cui non è possibile allontanare e licenziare una lavoratrice in maternità (a meno che non ci si trovi di fronte a una delle eccezioni che abbiamo elencato precedentemente e la assenza ingiustificata non coincide con nessuna di quelle eccezioni). Per questo motivo, la Corte di Cassazione ha condannato la ditta di Como al risarcimento danni, aggiungendo anche le spese di giudizio che la ex dipendente aveva dovuto sostenere.  

Licenziamento in gravidanza: come impugnarlo e ottenere giustizia!

Se sei stata licenziata in gravidanza devi manifestare con atto scritto, da inoltrare entro e non oltre 60 gg., al datore di lavoro la tua volontà di impugnare il provvedimento espulsivo.

È di assoluta importanza che l’atto scritto di contestazione del licenziamento intervenga attraverso modalità tali da garantire al lavoratore la prova della tempestiva impugnazione (raccomandata a/r o a mani, o pec, etc.).

Viceversa il licenziamento si stabilizzerà e perderai la possibilità di contestare la decisione presa dal datore di lavoro.

Una volta impugnato il licenziamento con atto scritto stragiudiziale, dovrai, entro il termine massimo di 180 giorni dall’inoltro della contestazione (e non da quello, successivo, del ricevimento della stessa da parte del datore di lavoro) a pena di irrimediabile inefficacia della contestazione:

  • depositare nella cancelleria del tribunale competente un ricorso giudiziale

oppure

  • comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato da promuovere per il tramite dell’Ispettorato del Lavoro di zona oppure secondo le analoghe procedure eventualmente previste dal CCNL applicato al rapporto.

Intrapresa questa strada, nel caso in cui la procedura conciliativa sia rifiutata dal datore di lavoro, oppure non si raggiunga l’accordo in merito al relativo espletamento, il ricorso giudiziale deve essere depositato entro e non oltre 60 gg. dal rifiuto o mancato accordo.

E ' da segnalare che la recentissima riforma Cartabia ha introdotto, anche per le controversie di lavoro, la “negoziazione assistita” che di fatto consente alle parti di disporre dei propri diritti anche al di fuori delle c.d. sedi protette, avvalendosi dell’assistenza dei rispetti avvocati, i quali insieme alle parti costituiscono presenze necessarie della procedura di negoziazione.

Si tratta quindi di una modalità alternativa di risoluzione della controversia, che tuttavia è facoltativa e non costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

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